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17 Novembre 2013
Il 17 novembre 2013 ho corso la Turin marathon in 3.38.51.
Un ottimo tempo per me.
Mentre percorrevo gli ultimi chilometri, mi sono posto una domanda.
E cosi’ mi sono dato anche al risposta…
Cosa vuol dire” Correre una maratona?”.
Sottoporre il proprio corpo (muscoli, ossa, articolazioni) ad una prova di resistenza estrema.
Spingersi oltre la fatica, il dolore, lo sconforto e, soprattutto, la paura di non farcela.
Sì, perché correre una maratona non é solo sforzo fisico.
E’ concentrazione, forza di volontà, amore per la vita.
Fino ai venti chilometri può arrivare quasi chiunque; anche a trenta, col giusto allenamento, ce la si può fare senza enormi difficoltà.
Oltre no.
Per correre 42 km (e 195 metri, non dimentichiamolo: alla fine della corsa si sentono eccome…) serve qualcosa di più del solo allenamento fisico.
Per quanto uno si alimenti correttamente, prima e durante la gara, dopo 30 / 35 chilometri il serbatoio é drammaticamente vuoto.
I tuoi muscoli hanno dato tutto quello che potevano dare.
Ora tocca a qualcos’altro.
E’ in quel momento, quando senti che il corpo non ce la fa più, che polpacci e quadricipiti urlano “fermati!”, che non hai più saliva né sudore da buttare fuori, è in quel momento che devono scendere in campo cervello, anima, cuore.
Il primo ti grida imperioso, sovrastando i lamenti strazianti dei muscoli: “E tutta la preparazione dei mesi scorsi? Le levatacce, i rimbrotti di tua moglie e dei tuoi colleghi di lavoro? Le rinunce a tavola ed alla vita sociale, sacrificata a lunghi e ripetute solitarie? Buttiamo tutto? No e poi ancora no! Tieni duro, perdio!”.
Poi, quando ormai mancano tre o quattro km e le ginocchia sono diventate dure come assi, é il tuo cuore a farsi sentire: “Ci siamo, amico mio. Stringi i denti ora. Non mollare: ama e corri, corri e ama”.
Alla fine, negli ultimi metri, è solo la tua anima che ti sorregge: “Lo senti il ritmo del respiro? Ascolti il cuore pulsare e puoi quasi vedere il sangue rosso e caldo scorrere nelle vene? Questi sono il dolore e la gioia, la speranza ed il dramma, frammisti a lacrime e sudore. Questa é la VITA, caro mio. Perché tu sei splendidamente vivo e quel traguardo a pochi passi é la parafrasi della nostra esistenza.
Allora andiamo! A noi la strada!”.
Ecco perché corriamo la maratona.
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4 Agosto 2013
Sei mesi di allenamento, centinaia di ore di corsa e di vasche in piscina, tempo sottratto alla famiglia, al lavoro ed al riposo, con un solo obiettivo: tagliare il traguardo in un tempo decente (e senza farmi) male del Long Ligerman Triathlon.
La più lunga gara cui mi sia mai iscritto: 2 km di nuoto nel lago di Santa Croce, 75 km di bici e 20 di corsa. Tempo massimo: sei ore.
Devo essere sincero: avevo più di qualche dubbio sulla mia capacità di arrivare alla fine della gara, la cui partenza era fissata per le 7 del mattino di domenica 4 agosto 2013.
Arrivo a Santa Croce sul Lago alle 21.00 di sabato, giusto per trovare la camera che condivideró con Enrico, ottimo ciclista della nostra Polisportiva Fossaltina.
Molto bello il B&B che ci ospita: una palazzina di fine ‘800, con splendida vista sul lago, ma la mia avventura agonistica non comincia affatto bene: a mezzanotte mi sto ancora rigirando nel letto e solo verso mattina riesco ad appisolarmi.
Mi sveglia Enrico alle 4 in punto: dobbiamo fare subito colazione, in modo da aver digerito prima di entrare in acqua: dopo un quarto d’ora mi avvento senza problemi sulla pastasciutta, seguita da una colazione vera e propria a base di caffé, burro e marmellata.
Alle 5:30 siamo pronti e portiamo le bici in zona cambio, dove ci aspetta una brutta notizia: l’acqua é a 24 gradi, per cui niente muta.
Porca miseria, io ci speravo: la muta agevola il galleggiamento e aiuta molto, senza contare che, per me, è una specie di coperta di Linus che mi infonde tranquillità e sicurezza.
Mentre comincia ad arrivare il grosso degli iscritti (siamo 250) decido di provare l’acqua.
Non é fredda, a paragone con l’aria esterna.
Appena esco inizio a tremare quasi convulsamente e fisso la cresta dei monti a est, aspettando con ansia che spunti il sole, confidando in un po’ di tepore.
Ma appena i primi raggi fanno capolino, suona la tromba del via.
Aspetto qualche secondo prima di buttarmi a nuoto, per evitare al solito la “tonnara”, ossia il vortice di braccia e gambe che, dopo due anni, continua a farmi paura.
Nonostante la partenza lenta, non riesco comunque a tenere il ritmo: il respiro mi si fa presto affannoso e devo passare di continuo a qualche bracciata a rana, per prendere fiato.
Comunque in 47 minuti ce la faccio, ma esco dall’acqua, tra gli ultimi.
Non importa: sono contento comunque ed entro in una zona cambio ormai deserta.
Con calma mi asciugo, metto le scarpe, il pettorale ed infilo anche un gilet impermeabile: sono zuppo di acqua ormai gelida e vorrei evitare un attacco di mal di pancia a metà percorso…
Inizio il primo dei cinque giri del lago in sella alla mia Wilier rossonera: una bella salita di tre km poco dopo il via, una discesona dove arrivo a 50 all’ora e poi tutto un saliscendi fino a Farra d’Alpago, dove c’é il controllo dei tempi.
Pedalo quasi sempre in solitaria, mangiando barrette e bevendo acqua e sali con regolaritá.
Tengo i 29 km/h di media, come da programma.
Dopo un po’ vengo superato da Alberto Casadei, che poi vincerà la gara, ed una manciata di altri ciclisti velocissimi, tutti col nome sul pettorale, portato sulla schiena come da regolamento durante il tratto in bici.
Niente di male se vengo doppiato da questi: sono i professionisti, penso.
Solo all’ultimo giro, quando sento la voce simpatica di un anziano ciclista impegnato nel giretto domenicale, che da dietro mi grida: “Ehi Alberto, sei stanco?”, mi rendo conto ch tutti abbiamo il nome sul pettorale…
Sorrido tra me e me mentre, dopo due ore e 34 minuti, riporto la bici in zona cambio (stavolta gremita di bici…) e, sempre con calma, cambio le scarpe e parto per i 20 km finali di corsa.
Sono quasi le 11 ed il caldo comincia a farsi sentire (finiremo abbondantemente sopra i 30 gradi), ma mi sento bene: parto piano per poi aumentare progressivamente, fino ad arrivare a 5:20 di media a km.
Il percorso, da ripetere quattro volte, é quasi tutto al sole, ma l’organizzazione é impeccabile: acqua, sali e persino coca colla ci vengono offerti con regolarità.
Supero parecchi concorrenti e non mi sento per niente male: chiuderó l’ultimo giro addirittura a 5:00 a km, segno che non ero affatto svuotato di energie ed avrei potuto tenere anche un ritmo più deciso.
Finalmente, dopo cinque ore di gara, imbocco il tratto finale.
Mi rendo conto che sto ridendo solo quando, a pochi metri dall’arrivo, sento dal pubblico qualcuno che mi applaude gridando: “Così si fa: si sorride fino alla fine! Questo è triathlon!”.
Taglio il traguardo in 5 ore e due minuti: stanco, zuppo dai capelli ai calzini ma decisamente soddisfatto.
Sono Ligerman.
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3 Marzo 2013
Finalmente il sole e, col sole, il mio primo tempo “decente”: tre ore e 49 minuti.
Peraltro, senza particolare affaticamento, per cui ritengo di avere ancora un buon margine di miglioramento…
La data di questo mio personale “successo” è il 3 marzo 2013 e la location è il capoluogo della Marca, la bellissima Treviso.
Molto particolare come maratona, in quanto sono previste tre partenze diverse, a scelta dei partecipanti: Vidor, Vittorio Veneto e Ponte di Piave, da dove sono partito io.
Tutti i maratoneti, all’altezza del 23° chilometro, confluiscono nel comune di Ponte della Priula e attraversano il ponte sul Piave, imbadierato e con i biplani che lo sorvolano lasciando nel cielo azzurro brillante le scie tricolori.
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28 Ottobre 2012
Non dimenticherò mai la mia prima maratona.
42 chilometri e 195 metri: la distanza che separa la piana di Maratona da Atene e, per me, la strada meravigliosa e unica che da Villa Pisani a Stra conduce fino alla piazza più bella del mondo: piazza San Marco a Venezia.
Ottomila gli iscritti, poco più di seimila quelli giunti all’arrivo. Già questo suggerisce in quali condizioni abbiamo corso.
Pioggia e vento gelido fin dalla partenza, ma il “colpo di grazia” lo abbiamo subito alle porte di Venezia, al Parco San Giuliano, trentaduesimo chilometro (io ero alle soglie delle tre ore di corsa), quando il freddo ha iniziato a farsi veramente sentire ed il vento, una gelida bora che arrivava da nord-est, a soffiare potente.
Abiti zuppi di pioggia, muscoli delle gambe in sofferenza, estremità letteralmente ghiacciate.
I primi trenta chilometri sono stati duri, li ho corsi in solitaria, ossia senza alcun compagno, seguendo col mio passo (5:30 al km) il flusso di atleti in marcia verso la laguna.
Ma gli ultimi dieci sono stati un vero e proprio tormento.
Alla fine, però, ce l’ho fatta.
Quattro ore e sette minuti: una decina di minuti in più del mio obiettivo ma, con quelle condizioni climatiche, non posso che esserne fiero!
Adesso inizio a preparare la prossima…
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13 Settembre 2012
Come dice Aldo Rock: il primo Ironman lo fai per caso, il secondo per scelta, il terzo per sempre.
In effetti, io non ho fatto (ancora) un Ironman, ma ho provato le medesime sensazioni col mio triathlon Olimpico.
Il primo olimpico a Bardolino è stato, effettivamente, un’impresa per me quasi epica.
Il secondo, a Sirmione, è stato fantastico perché avevo superato le prime paure.
Il terzo, a Grado, lo scorso 15 settembre, è stato una passeggiata.
Non voglio certo fare lo sbruffone (ho chiuso con un tempo a quasi-pensionato: 2 ore e 46 minuti), ma devo dire che mi sono proprio goduto la gara.
Non avevo ansie da prestazione, non sentivo particolari paure, il mio corpo rispondeva bene grazie agli intensi allenamenti di agosto (ho chiuso il mese delle ferie con 238 km totali di corsa, 9 di nuoto e 280 di bici) ed ho preso parte alla gara in scioltezza e tranquillità.
Via col nuoto in un mare (freddo e non proprio limpido) accarezzato da una brezza pre-autunnale!
Le boe sono a notevole distanza, tanto che rischiamo più volte di sbagliare direzione: ci tocca tirare spesso su la testa e correggere le bracciate.
Stavolta non sento il minimo affaticamento: non vado veloce (seguo sempre il mio ritmo) ma nuoto in scioltezza, fino a arrivare finalmente alla spiaggia.
Inizio a sfilarmi la muta prima ancora di uscire dall’acqua ed arrivo alla bici che sono quasi asciutto.
Calzo rapidamente le scarpe con le tacchette, indosso il casco e via per i 40 km in solitaria.
Si’, perche’ in questa gara è vietata la scia: ognuno per conto suo e nessun effetto-traino.
Vado via bene: il vento non è forte ed i tre giri filano via veloci.
La parte che mi ha soddisfatto di piu’ e’ stata la terza ed ultima frazione: il clima ideale per correre e la tranquillita’ che ha caratterizzato l’intera mia prova mi hanno aiutato a tenere praticamente i 5 minuti a chilometro. Chiudo in 51 minuti che, per me, è un ottimo tempo-gara.
Se penso che avevo nelle gambe mezz’ora abbondante di nuoto ed un’ora e rotti di bicicletta, c’è di che essere soddisfatti!
Un’ottima gara, in sostanza, goduta dall’inizio alla fine.
Adesso inizia l’autunno: penso che mettero’ via la bici e mi dedichero’ anima e corpo alla corsa: il 28 ottobre c’e’ la Venice Marathon.
La mia prima maratona…
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30 Giugno 2012
Un luogo meraviglioso: la penisola di Sirmione, una sottile striscia di terreno protesa dentro il lago di Garda, meta turistica d’eccezione, con un borgo medievale splendidamente conservato.
E’ in questo posto stupendo che ho preso parte al mio secondo triathlon sulla distanza olimpica: un chilometro e mezzo a nuoto nel lago, poi via di corsa per 40 Km in bici e, per finire, 10 Km di corsa a piedi sul lungolago.
Due ore, cinquanta minuti e 33 secondi il mio tempo finale.
La parte decisamente più’ bella e’ stata la prima: siamo partiti, divisi in sei batterie, dalla riva est della penisola; ci siamo diretti al largo e, aggirate quattro enormi boe rosse, abbiamo fatto ritorno verso riva, puntando direttamente sul castello.
Penso che non dimentichero’ mai la torre ed i merli in controluce, visti tra una bracciata e l’altra, meta da raggiungere ma non ancora traguardo.
Bisognava, infatti, entrare nel bacino del castello, passare sotto al ponte levatoio (!) sbucare dall’altra parte della penisola e prendere finalmente terra dalla parte opposta, sul lato ovest.
Sicuramente la frazione piu’ affascinante dell’intera gara.
Uscito dall’acqua (molto soddisfatto della nuotata, devo dire…) sono saltato sulla bici e via a pedalare verso l’entroterra.
Viti, ulivi e campi coltivati a cereali a perdita d’occhio.
Buono il percorso, senza troppi “strappi”.
Dopo un’ora e venti di pedalata arrivo nella seconda zona cambio (che e’ nel porticciolo turistico di Sirmione, a qualche chilometro dal centro storico, dove avevamo lasciato le bici inizialmente).
Qui c’era solo da agganciare la bici, infilare le scarpe e partire per l’ultima frazione.
Eppure sono riuscito a fare una fesseria anche qua.
Appendo la bici, mi tolgo casco e scarpe da ciclista ed inforco quelle da runner.
Strano, penso. Sembrano strette…
Allaccio la sinistra e passo alla destra.
Ci metto un po’ piu’ di attenzione (il dito mi fa ancora male, dopo la disavventura di Bardolino di due settimane fa) e noto un altro particolare: le stringhe sono bianche…
Ma io ho sempre avuto i lacci neri.
Un istante di panico…
Ed ecco che, dall’altro lato della bici, le mie Mizuno mi urlano: “Siamo qui, deficiente! Quelle sono di un altro!!!“.
Non ho neppure il tempo di arrabbiarmi: via le scarpe del mio vicino ed infilo rapidamente le mie (larghezza giusta e stringhe nere).
“Chi perde davvero non è chi arriva ultimo nella gara. Chi perde davvero è chi resta seduto a guardare, senza provare nemmeno a correre”. Oscar Pistorius
Pensa solo se l’altro fosse arrivato mentre mi stavo infilando le sue scarpe…
Ridendo da solo, come un ebete, parto per gli ultimi 10 Km.
Il caldo inizia a farsi sentire e lo stop forzato per quindici giorni dopo Bardolino mi pesa sulle gambe.
Non ce la faccio a tenere il mio ritmo e, alla fine, tengo una media di oltre 20 secondi superiore al tempo che mi ero prefisso.
Niente male, comunque.
Alla fine, ci ho impiegato quattro minuti in meno della gara precedente.
Se continua cosi’, tra dieci anni posso partecipare alle Olimpiadi…
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16 Giugno 2012
Non ho paura.
E’ come nuotare nel mio mare, davanti alla spiaggia di Jesolo.
Non ho paura.
Continuavo a ripetermelo mentre, in mezzo ad altri duecento energumeni, ma inesorabilmente e incommensurabilmente solo, stavo aspettando il via sulla banchina dello start del 29* Triathlon internazionale di Bardolino.
1300 iscritti. Io ho il pettorale 1165.
Siamo partiti alle 7:15 da Croce, col pulmino della Polisportiva Fossaltina, io con altri 5 triatleti, tutti con molta più esperienza di me, che sono al mio primo olimpico, più le due figlie di Andrea, che domenica scorsa ha fatto il mezzo Ironman a Pescara, ma non è voluto mancare a questo appuntamento.
Arriviamo a Bardolino alle 10:30.
In due vanno a ritirare pettorali e pacchi gara, mentre noi scarichiamo le bici ed iniziamo a prepararci.
Il parcheggio è stracolmo di macchine da cui sbucano uomini e donne in forma fisica strepitosa, a fianco di bici fantastiche.
Guardo con curiosità i loro pettorali: tutti numeri molto bassi, segno che partiranno nelle prime batterie, perché hanno alle spalle molte altre gare.
Io, invece, sono qui: con la mia bici nuova, tutto il mio entusiasmo e la mia somma inesperienza.
Soprattutto, sono qui con la mia paura: andrò in affanno nella prova di nuoto, come mi è successo a Sottomarina e a Jesolo l’anno scorso, nelle miei prime (e uniche) gare di Triathlon Sprint?
Mi preoccupa il nuoto nel lago (profondo, buio, freddo…) e il tratto in bici, che tutti descrivono come difficile e faticoso.
Da ciclista men che mediocre quale sono, potrebbe essere un problema serio.
L’obiettivo sarebbe terminare la gara sotto le tre ore: chi supera questo limite è squalificato.
In teoria, ce la dovrei fare: nei giri sperimentati a casa riesco a completare tutto in un’ora e cinquanta minuti circa, ma qui devo fare i conti con l’acqua del lago (che non ho mai provato) e le salite in bici…
Vedremo.
Appena arrivati in “zona cambio”, ossia l’area chiusa in cui si lasciano bici e attrezzatura, perdo di vista tutti i miei compagni.
Sono solo, in mezzo ad altri 1300 atleti…
Tutti sembrano saper alla perfezione cosa bisogna fare, mentre io frugo nella memoria, tra i libri e gli articoli che ho letto in quest’ultimo anno, alla ricerca affannosa di istruzioni e suggerimenti: come agganciare la bici, dove mettere le scarpe, cosa fare della muta…
Ecco: la muta.
Non è una muta da Triathlon e, appena la indosso, qualcuno me lo fa subito notare: “Hei, ma quella è una muta da surf”.
Io rispondo sempre allo stesso modo: “Questa ho trovato!”.
Ed è vero: comprata l’anno scorso a Jesolo… in un negozio di attrezzatura da surf!
E’ quasi mezzogiorno, la partenza è prevista per le 12:45.
Bene: è ora di fare qualche bracciata di prova.
Indosso la mia muta (da surf) e mi avvicino all’acqua, in mezzo a decine di uomini e donne inguainati in mute nere, sicuramente specifiche per il nuoto.
Entro.
Non è fredda.
Mi allontano a rana dalla riva, guardandomi un po’ intorno.
Gente con muta e cuffiette colorate che nuota dappertutto.
Metto la testa sotto e parto a stile libero.
Inizio a provare la serie bracciata-respiro, come faccio a Jesolo, cercando di convincermi che non ho paura, che è come al mare.
Prima bracciata, seconda bracciata, respiro.
Ancora. Ancora.
Sento il cuore che aumenta le pulsazioni.
Non è come al mare.
Mi giro e torno indietro.
Salgo sulla riva e torno alla bici.
Mentre sono lì che mi trastullo spostando scarpe e calzini, sento lo speaker che sbraita ai microfono: “Venti minuti al via. Sgomberare la Zona Cambio! Chi sarà ancora dentro la Zona Cambio entro un minuto sarà squalificato”.
Porca vacca! Mentre ero in acqua devono aver dato degli avvisi che non ho sentito.
Metto giù subito le scarpe, un’ultima occhiata alla mia Wilier nuova fiammante e via a passo di corsa verso l’uscita della Zona Cambio.
Ed ecco che succede.
Il piede destro, scalzo, cozza violentemente contro una roccia, appena coperta dal telo verde che indica il percorso per l’uscita.
Una fitta improvvisa. Poi un male infernale.
Mi tasto il mignolo. Dolore.
Esco zoppicando e già mi immagino il ritiro.
Si è rotto! Penso preoccupato. Non riuscirò ad indossare le scarpe…
Poi incontro qualche compagno di squadra.
Cerco di non pensare al piede mentre ci dirigiamo alla partenza.
Ma mi fa male.
Siamo tutti ammassati in attesa del via.
Ci sono sette batterie e io, ovviamente, sono nella settima.
Ecco: partono le donne.
Poi i professionisti con la cuffia bianca. Poi tutti gli altri: cuffie blu, verdi, gialle, rosse.
Finalmente arriva la chiamata: “Pronti al via le cuffie viola!”.
Mi figlia Maria avrebbe detto “lilla” penso sorridendo tra me…
Mentre Luca, il mio socio, avrebbe detto “colore da gay”…
Seguo il gruppo e scendiamo sul pontile.
Decido di stare all’esterno, a destra, e partire in coda, per evitare la massa umana che si butterà in acqua menando colpi da tutte le parti: un uomo di settanta o ottanta chili che parte a stile libero a tutta velocità non sta troppo a guardare se il suo avambraccio cala sulla testa o la schiena di chi gli nuota vicino…
E la mia schiena custodisce qualcosa di troppo importante per essere messo in pericolo da una nuotata: il mio rene destro, l’unico che mi è rimasto dopo un incidente in un campo da calcio quasi trent’anni fa.
Metto i piedi in acqua ed il freddo mi fa perdere la sensibilità al piede.
Bene.
Sto ancora mormorando tra me “Io non ho paura” quando sento la sirena del via.
Si parte!
Mi butto, dietro a tutti, e comincio con regolarità: uno, due e respiro; uno, due e respiro. L’acqua non è affatto male.
Dopo qualche minuto sento che posso benissimo farcela senza problemi.
Non vado in affanno. Riesco a tenere bene sotto controllo il respiro.
Ogni tanto tiro su la testa, per essere certo di non sbagliare direzione, ma non c’è pericolo: davanti a me un mare di cuffie viola e di spruzzi d’acqua indica senza alcun dubbio la via giusta.
Sott’acqua intravedo piedi scalcianti, gambe, mute.
Qualche faccia ogni tanto, con la bocca spalancata ad assorbire più aria possibile.
Tocco qualcosa con la testa: la boa dei 500 metri!
Benissimo. Sono già ad un terzo del percorso e mi sento in condizioni ottimali. Provo a spingere un po’ ed inizio a vedere qualche cuffia rossa in mezzo alle viola. Abbiamo raggiunto i più lenti della batteria precedente.
Ecco la grande boa rossa attorno cui girare per iniziare il ritorno.
Tutti si ammassano per stringere la curva e faccio un paio di bracciate a rana, per vedere bene dove sto andando e per evitare impatti sgraditi.
Supero la boa e via di nuovo a stile libero.
Mi sento benissimo. La paura ormai è veramente solo un ricordo.
Boa dei 750 metri. Poi quella dei 1000.
Vedo l’arrivo.
Ce la sto facendo e mi pare che il tempo sia buono.
Non credo sia passata mezz’ora.
Tiro su la testa. Altre due bracciate a rana per capire bene dove sono ed imboccare con esattezza il punto di uscita dall’acqua.
Ci sono!
Esco, aiutato da braccia forti che ci tirano su, quasi con violenza, per liberare l’accesso per gli altri che sono dietro di noi.
Felice per la prova natoria (poi scoprirò che l’ho ultimata in 33 minuti, un buon tempo da piscina, per me!) scopro con grande rammarico che il piede è tutt’altro che magicamente “guarito”: sento una fitta lancinante arrivare dal mignolo ogni volta che appoggio il piede destro a terra.
Sconsolato, mi avvio verso la bici camminando lentamente.
Mentre rifletto sulle scarse possibilità che ho di riuscire a calzare le scarpe, inizio ad armeggiare con la muta che, sorprendentemente, si sfila senza troppe difficoltà. Ho persino il tempo si succhiare una bustina del mio gustosissimo (bleah!) integratore alla ciliegia…
Arrivo alla bici e mi siedo per terra.
Mi tasto il piede, metre tutt’attorno gli altri saltano in sella alle loro bici.
Mi asciugo un po’ e mi infilo il calzino.
Fatta.
Poi la scarpa. Che male!
Stretta o lasca?
Decido di lasciarla un po’ comoda e, finalmente, indosso il casco e stacco la bici. Perdo oltre cinque minuti nel primo cambio…
Camminare mi fa male, ma sento la bici vicina e mi sembra che, come una cavallo, abbia voglia di fare la “sua” parte.
Provo a corricchiare.
Ce la faccio. Arrivo all’uscita della zona cambio e balzo in sella.
Le scarpe si allacciano subito ai pedali e inizio a spingere.
Non sento quasi niente.
Il solo caldo, la luce brillante, il fresco dell’acqua del lago che ha impregnato la mia divisa mi eccitano.
C’è gente che batte le mani e ci incita.
Sono felice e mi metto a fischiare. Forte, con la lingua tra i denti, come per chiamare qualcuno lontano. Come faceva mio papà.
E si parte col tratto in bici. 40 km in collina.
Usciti dal centro di Bardolino c’è subito il primo “strappo”: i miei compagni di squadra mi avevano avvertito: “Stai attento che è dura. Metti i rapporti più facili che hai e non esagerare, sennò scoppi subito”.
Faccio come mi avevano consigliato ed arrivo in cima, con un bel fiatone ed il cuore che pulsa a mille.
Ma il paesaggio è stupendo, l’aria tersa e le gambe hanno voglia di spingere.
Mi supera un gruppetto di quattro o cinque ciclisti “seri” e mi butto subito dietro di loro. Sulle salite l’effetto della “scia” praticamente non si sente, me nel tratti più o meno pianeggianti e, soprattutto, quando incontriamo un po’ di vento, è tutta un’altra cosa.
Era proprio così che me l’ero immaginata a casa: tieni duro durante il nuoto e spera di trovare qualcuno che sa pedalare, cui attaccarti.
Andiamo bene. Tanto che cerco persino io di “tirare” quand’è il mio turno.
Ormai le divise dei miei “compagni” di pedalata mi sono familiari e scambiare qualche mezza parola fa molto piacere, mentre spingiamo sui pedali in mezzo a questi colline, fitte di ulivi, viti e fiori di tutti i colori.
Arriviamo a metà percorso, in vetta alla collina, da cui inizia una bella discesa verso valle, mentre in testa continua a passarmi “Thunder Road” di Bruce Springsteen, che ho sentito dal vivo appena cinque giorni fa a Trieste.
Qui ci perdiamo un po’: sessanta all’ora è veramente tanto per me, per cui inizio a toccare i freni e i miei compagni, molto più esperti e smaliziati, mi lasciano indietro.
Poco male. Sento che siamo arrivati e inizio a pensare alla terza frazione, la corsa, quella che mi preoccupava di meno e che, adesso, temo mi possa invece impedire di arrivare al traguardo.
Ed ecco, all’improvviso, l’arrivo e la zona cambio.
Scendo la bici (hai fatto splendidamente il tuo lavoro, magica Wilier Triestina!) e appena appoggio il piede sinistro a terra sento un fitta.
Arrivo alla mia postazione, aggancio la bici, bevo un sorso d’acqua e cambio le scarpe. Stavolta decido di stringere la destra il più possibile.
Parto. O la va o la spacca, penso.
I primi passi sono un inferno.
Stringo i denti e continuo a correre.
Anche se dovessi arrivare saltando su una gamba sola, penso, questa gara la finisco!
Dopo il primo chilometro, imboccato il lungolago, butto l’occhio sul mio Garmin e vedo che sto correndo a 5:00.
Un ottimo passo, secondo i miei standard!
Sarà l’eccitazione della gara, l’adrenalina che ormai mi avrà inzuppato anche la canottiera o la mia volontà assoluta di continuare, fatto sta che riesco a correre bene. Il caldo comincia a farsi sentire e decido di bere ad ogni rifornimento. Ce ne sono tanti, per fortuna.
L’organizzazione sa il fatto suo, non c’è che dire.
Faccio il primo giro e comincio a pensare che ce la farò.
Non so i tempi totali (non ho tenuto il Garmin in acqua e il gps della bici a metà percorso si è bloccato) ma sento che sto andando bene.
Sotto le tre ore, sotto le tre ore. Forza!
Stringo i denti.
Ultimi due chilometri. Trovo la forza di spingere ancora (chiudo l’ultimo km a 4:47 di media, un tempo eccezionale per me).
Arrivo al ponte rivestito di azzurro che conduce all’arrivo. Supero un paio di podisti che avevo seguito nell’ultimo tratto e, in solitaria, taglio il traguardo del mio primo Triathlon olimpico.
Tre ore e 15 indica il timer dell’arrivo. E’ il tempo totale e, tenendo conto che sono partito con l’ultima batteria, sono certo di avercela fatta.
E, infatti, il mio tempo sarà 2:54:17.
Sono zuppo di sudore, di acqua del lago di Garda e dell’ultima bottiglietta che mi sono svuotato in testa; il piede destro pulsa a ritmo rock (il giorno dopo il mignolo sarà talmente gonfio che mi sembrerà di avere due alluci…); ma finalmente posso dirlo.
Come Filippide, dopo la battaglia di Maratona: Nenikèkamen!
Abbiamo vinto: io, i miei 44 anni, il mio rene superstite contro questa sfida che solo un anno fa mi pareva impari e che oggi, 16 giugno 2012, dopo tre ore di passione (due e cinquantaquattro, per la precisione…) è superata.
Nenikèkamen.
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9 Settembre 2011
Sono le due del pomeriggio di una torrida domenica di settembre 2011.
Sto correndo, semidisidratato, sul lungomare di Sottomarina.
In lontananza sento l’eco delle premiazioni: gli altri hanno finito già da un po’ ed a me mancano ancora due giri…
Che mona che son, penso…
Ma cosa sto facendo?
Ieri sono ritornato da un week end in Romagna con la mia famiglia e mi sembra ancora di sentire la pasta al ragù della cena trastullarsi indecisa nello stomaco, come se stesse riflettendo se salire o scendere…
Certo che fare una gita di tre giorni nel cuore dell’Italia enogastronomica subito prima di una gara di Triathlon non è stata una bella idea.
Se poi pensiamo che era anche la mia PRIMA gara di Triathlon, preparata in poco più di un mese, c’è di che essere decisamente perplessi…
Ma la vacanza era programmata da tempo ed i miei impegni “sportivi” non possono assolutamente condizionare le scelte della famiglia!
Non mi taglio barba e capelli da primavera: una specie di scommessa con me stesso: avevo deciso di fare come i vichinghi, che non si radevano (e neppure si lavavano…) prima di aver consumato la vendetta.
E la mia “vendetta” sarebbe stata una gara di Triathlon.
E adesso, sempre più stravolto, col sole che picchia ed il respiro che brucia, sento ad ogni giro un simpatico chioggiotto che mi grida: “Tien duro, barba!”.
È sicuro: son decisamente mona…
Non facevo sport seriamente dall’età di sedici anni, quando un maledetto pomeriggio di dicembre, durante una partita di calcio, mi spappolarono il rene sinistro con una ginocchiata.
Da allora, basta calcio, basta pallacanestro.
”Solo nuoto”, disse a mia madre un medico frettoloso all’ospedale, il giorno che mi dimisero…
Così mi sono ridotto ad un’oretta di piscina a settimana e, durante l’estate, a qualche corsetta (un paio di chilometri alla volta…) in campagna o al mare.
Poi mi sono svegliato a 42 anni: un ottimo lavoro, una splendida famiglia e… il fiatone per superare la prima rampa di scale!
Un giorno, all’uscita dalla piscina, il bagnino, che è da sempre fonte inesauribile di saggezza, vedendomi affaticato mi disse ridacchiando sotto i baffoni: “Me raccomando, avocato: a quarant’anni o se tradisse la moglie o se fa la maratona!”.
Ecco: aveva indovinato. Avevo bisogno di una nuova sfida.
Lasciando perdere la prima opzione, ho pensato subito alla maratona.
Anzi, a qualcosa di più complicato: farò il Triathlon, mi sono detto subito!
Recupero una bici da corsa usata, compro un paio di scarpe (che mi sembrano) da running e, ovviamente, un libro che spieghi come si fa…
E adesso sono qua, dopo aver annaspato in mare per venti minuti, in quella che, nel mio roseo pronostico, avrebbe dovuto essere la frazione migliore e dopo aver arrancato quasi tre quarti d’ora in bici, sempre da solo, badando bene a non farmi travolgere, anche se ho superato Martina Dogana (beh, veramente lei stava facendo l’ultimo giro a piedi ed io ero ancora al secondo in bici…).
L’ultimo tratto a piedi è durissimo.
Controllo di non essere proprio l’ultimo e, per fortuna, c’è qualcuno preso peggio di me, in lontananza…
Alla fine… Taglio il traguardo!
Non c’è più nessuno, hanno già finito le premiazioni.
Spero sia rimasta almeno un po’ d’acqua…
Mentre torno, solo soletto, alla macchina, penso che sono contento.
Ce l’ho fatta!
L’ho finito. Ho finito una gara di Triathlon!
Un paio di giorni dopo guardo su Internet le foto della competizione.
Sono uscito diverse volte (forse, essendo da solo, ho facilitato il lavoro ai fotografi…).
Guardo con curiosità le foto: chissà come sono stravolto, penso…
E invece, sorrido.
In tutte le foto, sto sorridendo. Sempre!
Allora ho realizzato quanto mi sono divertito. Quasi senza rendermene conto.
“Un giorno la paura bussó alla porta. Il coraggio si alzò ed andò ad aprire e vide che non c’era nessuno”. W. Goethe
Il Triathlon, per me, che corro per il gusto di farlo, senza grandi ambizioni di risultato, è divertimento e voglia di vivere.
È sempre e solo una gara non “contro”, come dice Murakami, ma “con” me stesso.
Con le mie paure, il mio fisico non più integro, i miei 44 anni.
Soprattutto, col mio ego, che teme ogni volta l’umiliazione del ritiro.
Ciò che conta, in ogni caso, è il sorriso: mi piace, mi diverto, mi sento vivo.
E allora nuoto, pedalo e corro, finché ho fiato.
E possa sempre il Sorriso correre al mio fianco!