Triathlon Olimpico di Bardolino: la mia prima prova sulla distanza olimpica
Non ho paura.
E’ come nuotare nel mio mare, davanti alla spiaggia di Jesolo.
Non ho paura.
Continuavo a ripetermelo mentre, in mezzo ad altri duecento energumeni, ma inesorabilmente e incommensurabilmente solo, stavo aspettando il via sulla banchina dello start del 29* Triathlon internazionale di Bardolino.
1300 iscritti. Io ho il pettorale 1165.
Siamo partiti alle 7:15 da Croce, col pulmino della Polisportiva Fossaltina, io con altri 5 triatleti, tutti con molta più esperienza di me, che sono al mio primo olimpico, più le due figlie di Andrea, che domenica scorsa ha fatto il mezzo Ironman a Pescara, ma non è voluto mancare a questo appuntamento.
Arriviamo a Bardolino alle 10:30.
In due vanno a ritirare pettorali e pacchi gara, mentre noi scarichiamo le bici ed iniziamo a prepararci.
Il parcheggio è stracolmo di macchine da cui sbucano uomini e donne in forma fisica strepitosa, a fianco di bici fantastiche.
Guardo con curiosità i loro pettorali: tutti numeri molto bassi, segno che partiranno nelle prime batterie, perché hanno alle spalle molte altre gare.
Io, invece, sono qui: con la mia bici nuova, tutto il mio entusiasmo e la mia somma inesperienza.
Soprattutto, sono qui con la mia paura: andrò in affanno nella prova di nuoto, come mi è successo a Sottomarina e a Jesolo l’anno scorso, nelle miei prime (e uniche) gare di Triathlon Sprint?
Mi preoccupa il nuoto nel lago (profondo, buio, freddo…) e il tratto in bici, che tutti descrivono come difficile e faticoso.
Da ciclista men che mediocre quale sono, potrebbe essere un problema serio.
L’obiettivo sarebbe terminare la gara sotto le tre ore: chi supera questo limite è squalificato.
In teoria, ce la dovrei fare: nei giri sperimentati a casa riesco a completare tutto in un’ora e cinquanta minuti circa, ma qui devo fare i conti con l’acqua del lago (che non ho mai provato) e le salite in bici…
Vedremo.
Appena arrivati in “zona cambio”, ossia l’area chiusa in cui si lasciano bici e attrezzatura, perdo di vista tutti i miei compagni.
Sono solo, in mezzo ad altri 1300 atleti…
Tutti sembrano saper alla perfezione cosa bisogna fare, mentre io frugo nella memoria, tra i libri e gli articoli che ho letto in quest’ultimo anno, alla ricerca affannosa di istruzioni e suggerimenti: come agganciare la bici, dove mettere le scarpe, cosa fare della muta…
Ecco: la muta.
Non è una muta da Triathlon e, appena la indosso, qualcuno me lo fa subito notare: “Hei, ma quella è una muta da surf”.
Io rispondo sempre allo stesso modo: “Questa ho trovato!”.
Ed è vero: comprata l’anno scorso a Jesolo… in un negozio di attrezzatura da surf!
E’ quasi mezzogiorno, la partenza è prevista per le 12:45.
Bene: è ora di fare qualche bracciata di prova.
Indosso la mia muta (da surf) e mi avvicino all’acqua, in mezzo a decine di uomini e donne inguainati in mute nere, sicuramente specifiche per il nuoto.
Entro.
Non è fredda.
Mi allontano a rana dalla riva, guardandomi un po’ intorno.
Gente con muta e cuffiette colorate che nuota dappertutto.
Metto la testa sotto e parto a stile libero.
Inizio a provare la serie bracciata-respiro, come faccio a Jesolo, cercando di convincermi che non ho paura, che è come al mare.
Prima bracciata, seconda bracciata, respiro.
Ancora. Ancora.
Sento il cuore che aumenta le pulsazioni.
Non è come al mare.
Mi giro e torno indietro.
Salgo sulla riva e torno alla bici.
Mentre sono lì che mi trastullo spostando scarpe e calzini, sento lo speaker che sbraita ai microfono: “Venti minuti al via. Sgomberare la Zona Cambio! Chi sarà ancora dentro la Zona Cambio entro un minuto sarà squalificato”.
Porca vacca! Mentre ero in acqua devono aver dato degli avvisi che non ho sentito.
Metto giù subito le scarpe, un’ultima occhiata alla mia Wilier nuova fiammante e via a passo di corsa verso l’uscita della Zona Cambio.
Ed ecco che succede.
Il piede destro, scalzo, cozza violentemente contro una roccia, appena coperta dal telo verde che indica il percorso per l’uscita.
Una fitta improvvisa. Poi un male infernale.
Mi tasto il mignolo. Dolore.
Esco zoppicando e già mi immagino il ritiro.
Si è rotto! Penso preoccupato. Non riuscirò ad indossare le scarpe…
Poi incontro qualche compagno di squadra.
Cerco di non pensare al piede mentre ci dirigiamo alla partenza.
Ma mi fa male.
Siamo tutti ammassati in attesa del via.
Ci sono sette batterie e io, ovviamente, sono nella settima.
Ecco: partono le donne.
Poi i professionisti con la cuffia bianca. Poi tutti gli altri: cuffie blu, verdi, gialle, rosse.
Finalmente arriva la chiamata: “Pronti al via le cuffie viola!”.
Mi figlia Maria avrebbe detto “lilla” penso sorridendo tra me…
Mentre Luca, il mio socio, avrebbe detto “colore da gay”…
Seguo il gruppo e scendiamo sul pontile.
Decido di stare all’esterno, a destra, e partire in coda, per evitare la massa umana che si butterà in acqua menando colpi da tutte le parti: un uomo di settanta o ottanta chili che parte a stile libero a tutta velocità non sta troppo a guardare se il suo avambraccio cala sulla testa o la schiena di chi gli nuota vicino…
E la mia schiena custodisce qualcosa di troppo importante per essere messo in pericolo da una nuotata: il mio rene destro, l’unico che mi è rimasto dopo un incidente in un campo da calcio quasi trent’anni fa.
Metto i piedi in acqua ed il freddo mi fa perdere la sensibilità al piede.
Bene.
Sto ancora mormorando tra me “Io non ho paura” quando sento la sirena del via.
Si parte!
Mi butto, dietro a tutti, e comincio con regolarità: uno, due e respiro; uno, due e respiro. L’acqua non è affatto male.
Dopo qualche minuto sento che posso benissimo farcela senza problemi.
Non vado in affanno. Riesco a tenere bene sotto controllo il respiro.
Ogni tanto tiro su la testa, per essere certo di non sbagliare direzione, ma non c’è pericolo: davanti a me un mare di cuffie viola e di spruzzi d’acqua indica senza alcun dubbio la via giusta.
Sott’acqua intravedo piedi scalcianti, gambe, mute.
Qualche faccia ogni tanto, con la bocca spalancata ad assorbire più aria possibile.
Tocco qualcosa con la testa: la boa dei 500 metri!
Benissimo. Sono già ad un terzo del percorso e mi sento in condizioni ottimali. Provo a spingere un po’ ed inizio a vedere qualche cuffia rossa in mezzo alle viola. Abbiamo raggiunto i più lenti della batteria precedente.
Ecco la grande boa rossa attorno cui girare per iniziare il ritorno.
Tutti si ammassano per stringere la curva e faccio un paio di bracciate a rana, per vedere bene dove sto andando e per evitare impatti sgraditi.
Supero la boa e via di nuovo a stile libero.
Mi sento benissimo. La paura ormai è veramente solo un ricordo.
Boa dei 750 metri. Poi quella dei 1000.
Vedo l’arrivo.
Ce la sto facendo e mi pare che il tempo sia buono.
Non credo sia passata mezz’ora.
Tiro su la testa. Altre due bracciate a rana per capire bene dove sono ed imboccare con esattezza il punto di uscita dall’acqua.
Ci sono!
Esco, aiutato da braccia forti che ci tirano su, quasi con violenza, per liberare l’accesso per gli altri che sono dietro di noi.
Felice per la prova natoria (poi scoprirò che l’ho ultimata in 33 minuti, un buon tempo da piscina, per me!) scopro con grande rammarico che il piede è tutt’altro che magicamente “guarito”: sento una fitta lancinante arrivare dal mignolo ogni volta che appoggio il piede destro a terra.
Sconsolato, mi avvio verso la bici camminando lentamente.
Mentre rifletto sulle scarse possibilità che ho di riuscire a calzare le scarpe, inizio ad armeggiare con la muta che, sorprendentemente, si sfila senza troppe difficoltà. Ho persino il tempo si succhiare una bustina del mio gustosissimo (bleah!) integratore alla ciliegia…
Arrivo alla bici e mi siedo per terra.
Mi tasto il piede, metre tutt’attorno gli altri saltano in sella alle loro bici.
Mi asciugo un po’ e mi infilo il calzino.
Fatta.
Poi la scarpa. Che male!
Stretta o lasca?
Decido di lasciarla un po’ comoda e, finalmente, indosso il casco e stacco la bici. Perdo oltre cinque minuti nel primo cambio…
Camminare mi fa male, ma sento la bici vicina e mi sembra che, come una cavallo, abbia voglia di fare la “sua” parte.
Provo a corricchiare.
Ce la faccio. Arrivo all’uscita della zona cambio e balzo in sella.
Le scarpe si allacciano subito ai pedali e inizio a spingere.
Non sento quasi niente.
Il solo caldo, la luce brillante, il fresco dell’acqua del lago che ha impregnato la mia divisa mi eccitano.
C’è gente che batte le mani e ci incita.
Sono felice e mi metto a fischiare. Forte, con la lingua tra i denti, come per chiamare qualcuno lontano. Come faceva mio papà.
E si parte col tratto in bici. 40 km in collina.
Usciti dal centro di Bardolino c’è subito il primo “strappo”: i miei compagni di squadra mi avevano avvertito: “Stai attento che è dura. Metti i rapporti più facili che hai e non esagerare, sennò scoppi subito”.
Faccio come mi avevano consigliato ed arrivo in cima, con un bel fiatone ed il cuore che pulsa a mille.
Ma il paesaggio è stupendo, l’aria tersa e le gambe hanno voglia di spingere.
Mi supera un gruppetto di quattro o cinque ciclisti “seri” e mi butto subito dietro di loro. Sulle salite l’effetto della “scia” praticamente non si sente, me nel tratti più o meno pianeggianti e, soprattutto, quando incontriamo un po’ di vento, è tutta un’altra cosa.
Era proprio così che me l’ero immaginata a casa: tieni duro durante il nuoto e spera di trovare qualcuno che sa pedalare, cui attaccarti.
Andiamo bene. Tanto che cerco persino io di “tirare” quand’è il mio turno.
Ormai le divise dei miei “compagni” di pedalata mi sono familiari e scambiare qualche mezza parola fa molto piacere, mentre spingiamo sui pedali in mezzo a questi colline, fitte di ulivi, viti e fiori di tutti i colori.
Arriviamo a metà percorso, in vetta alla collina, da cui inizia una bella discesa verso valle, mentre in testa continua a passarmi “Thunder Road” di Bruce Springsteen, che ho sentito dal vivo appena cinque giorni fa a Trieste.
Qui ci perdiamo un po’: sessanta all’ora è veramente tanto per me, per cui inizio a toccare i freni e i miei compagni, molto più esperti e smaliziati, mi lasciano indietro.
Poco male. Sento che siamo arrivati e inizio a pensare alla terza frazione, la corsa, quella che mi preoccupava di meno e che, adesso, temo mi possa invece impedire di arrivare al traguardo.
Ed ecco, all’improvviso, l’arrivo e la zona cambio.
Scendo la bici (hai fatto splendidamente il tuo lavoro, magica Wilier Triestina!) e appena appoggio il piede sinistro a terra sento un fitta.
Arrivo alla mia postazione, aggancio la bici, bevo un sorso d’acqua e cambio le scarpe. Stavolta decido di stringere la destra il più possibile.
Parto. O la va o la spacca, penso.
I primi passi sono un inferno.
Stringo i denti e continuo a correre.
Anche se dovessi arrivare saltando su una gamba sola, penso, questa gara la finisco!
Dopo il primo chilometro, imboccato il lungolago, butto l’occhio sul mio Garmin e vedo che sto correndo a 5:00.
Un ottimo passo, secondo i miei standard!
Sarà l’eccitazione della gara, l’adrenalina che ormai mi avrà inzuppato anche la canottiera o la mia volontà assoluta di continuare, fatto sta che riesco a correre bene. Il caldo comincia a farsi sentire e decido di bere ad ogni rifornimento. Ce ne sono tanti, per fortuna.
L’organizzazione sa il fatto suo, non c’è che dire.
Faccio il primo giro e comincio a pensare che ce la farò.
Non so i tempi totali (non ho tenuto il Garmin in acqua e il gps della bici a metà percorso si è bloccato) ma sento che sto andando bene.
Sotto le tre ore, sotto le tre ore. Forza!
Stringo i denti.
Ultimi due chilometri. Trovo la forza di spingere ancora (chiudo l’ultimo km a 4:47 di media, un tempo eccezionale per me).
Arrivo al ponte rivestito di azzurro che conduce all’arrivo. Supero un paio di podisti che avevo seguito nell’ultimo tratto e, in solitaria, taglio il traguardo del mio primo Triathlon olimpico.
Tre ore e 15 indica il timer dell’arrivo. E’ il tempo totale e, tenendo conto che sono partito con l’ultima batteria, sono certo di avercela fatta.
E, infatti, il mio tempo sarà 2:54:17.
Sono zuppo di sudore, di acqua del lago di Garda e dell’ultima bottiglietta che mi sono svuotato in testa; il piede destro pulsa a ritmo rock (il giorno dopo il mignolo sarà talmente gonfio che mi sembrerà di avere due alluci…); ma finalmente posso dirlo.
Come Filippide, dopo la battaglia di Maratona: Nenikèkamen!
Abbiamo vinto: io, i miei 44 anni, il mio rene superstite contro questa sfida che solo un anno fa mi pareva impari e che oggi, 16 giugno 2012, dopo tre ore di passione (due e cinquantaquattro, per la precisione…) è superata.
Nenikèkamen.