Challenge Venice, finalmente!
… e alla fine, ce l’abbiamo fatta.
Challenge Venice, 5 giugno 2016: 3,8 km a nuoto, 180 km in bici e maratona finale in 11 ore e 46 minuti.
Sono ufficialmente ironman, anzi: ironlawyer.
Sveglia prima dell’alba, tuffo in laguna, sei ore di bicicletta, una maratona estenuante sotto il sole ed un traguardo emozionante, dopo una giornata ininterrotta di fatica e sudore…
Questa è stata la mia gara, la mia vittoria personale, contro me stesso, i miei limiti e le mie paure.
Ma quello che ricorderò di più di questa folle e meravigliosa avventura sportiva, iniziata quasi per scommessa con un triathlon sprint cinque anni fa, non è tanto la stupenda giornata clou del 5 giugno, quanto i lunghi mesi di allenamento che mi hanno consentito di arrivarci, nel pieno delle mie forze e perfettamente consapevole che il traguardo era alla mia portata.
Ricorderò per sempre l’inverno in piscina, con due allenamenti settimanali da 5 km l’uno.
Non scorderò mai le ore passate nel mio sgabuzzino a pedalare sui rulli da solo, sudando come un matto e guardano vecchie puntate di Magnum p.i. e Battlestar Galactica, mentre fuori era ancora buio, pioveva e faceva freddo.
Accarezzerò sempre il ricordo dei “lunghi” a piedi del sabato mattina, attesi con ansia già dalla sera del venerdì: tre ore di corsa tra Piave e campagna, in compagnia solo del ritmo del mio respiro e del canto dei merli.
Una media mensile di 250 km a piedi, 35 a nuoto e 600 in bici, diventati mille in primavera…
Una montagna di ore, sottratte alla mia famiglia, al mio lavoro, alla mia vita di tutti i giorni: una fatica immane, per incastrare gli allenamenti tra gli impegni della giornata, cercando di non irritare nessuno e di non trascurare (troppo) le altre attività quotidiane, sempre girando con le borse nel bagagliaio dell’auto, così da poter approfittare di ogni ora libera per un tuffo in piscina o una corsa liberatoria in mezzo ai campi o in riva al mare.
Tutto per arrivare preparato a quel tuffo in laguna alle 6:30 del 5 giugno.
Entro in acqua con la solita tensione, che riesco però a controllare grazie anche a qualche preghiera, sussurrata tra me e me.
L’impatto con l’acqua non è male, nonostante le pulsazioni tendano a salire: vedo San Giuliano lontano, guardo il Ponte della Libertà alla mia sinistra, che tante volte ho percorso per andare al lavoro: mi è sempre sembrato lungo in auto, eterno durante la maratona di Venezia, ma questa domenica mattina è stupendo.
So che sto facendo una cosa incredibile.
Quattro o cinque bracciate a rana, tanto per prendere confidenza con quest’acqua non proprio trasparente e poi via: uno, due, tre, respiro a destra; uno, due, tre, respiro a sinistra…
E così via, per un’ora e un quarto.
Provo a contare le “bricole” alla mia destra, ma mi perdo subito.
Qualcuno mi affianca e mi supera facilmente, ma dopo la metà del percorso comincio anch’io a lasciarmi alle spalle qualche cuffia colorata.
Vai così! Mi dico da solo.
Ecco San Giuliano, finalmente!
All’arrivo l’acqua è bassissima, si fatica persino a nuotare, ma la gioia di essere arrivato, con un ottimo tempo, è troppa per pensare ad altre difficoltà.
Esco dall’acqua, inizio a correre slacciando la muta e, in vista delle bici, incontro mio cognato Matteo, che mi aspettava, sia per incitarmi sia (immagino) per avvisare mia madre che sono uscito dalla laguna sano e salvo.
“Tutto a posto – gli grido – tutto perfetto!”.
Quanto ringrazierò, in questa giornata, i volti sorridenti degli amici che incontrerò lungo il percorso…
Ecco la zona cambio: prendo la mia borsa e mi svesto completamente, per indossare la tenuta da ciclismo. Via di corsa alla mia Argon 18, che mi aspetta, carica di roba da magiare e da bere.
Inforco il mio cavallo di carbonio e parto, iniziando subito a mangiare.
Mi sento benissimo, rincuorato per la buona prova a nuoto, ed inizio a pedalare con forza, imboccando la trentina di chilometri necessari per arrivare all’anello tra Meolo, Roncade e Monastier, da percorrere tre volte.
Vado via bene, con il mio k-way legato attorno alla schiena (come si dice da noi: “Pan e gabàn, sempre a portata de man…”) ed i chilometri filano via veloci.
Mangio, bevo, incontro amici che mi salutano, mi sorridono, mi fotografano.
Ad un ristoro prendo da un alpino un panino al prosciutto e, a quello dopo, una bottiglia d’acqua. Non mi trattengo e dico ridendo alla penna nera: “Grazie per l’acqua, ma preferivo un’ombra, però!”. Tutti ridono e mi gridano: “Ce l’abbiamo, rosso o prosecco? torna qua!”.
Goditi questo momento, mi dico: hai lavorato tanto per arrivarci.
Riesco a tenere i trenta all’ora per tutta la frazione, che chiudo in cinque ore e 54 minuti.
Entro per la seconda volta in zona cambio e mi rendo conto di due cose: sto benissimo e sono abbastanza indietro (le bici sulle rastrelliere sono tante).
Nessun problema, sono felice.
Cambio scarpe, maglietta e pantaloncini e via di corsa.
Incredibile: faccio i primi venti chilometri a 5:30 a km.
Non sono mai stato così bene ed in forma, neppure quando avevo vent’anni…
Alcuni amici sono anche qui al parco e i loro volti sorridenti, le loro parole di incitamento, mi aiutano tantissimo: grazie Paolo, grazie Martina.
Gli ultimo dieci chilometri sono un po’ faticosi, la media oraria scende drasticamente prima a sei a km, poi a sei e mezzo.
Una maratona eccezionale, comunque, durante la quale recupero ben cento posizioni.
Inizia a fare caldo e, alla fine, bevo acqua e sali ad ogni ristoro (ho fatto tutte le mie dodici ore solo assumendo cibi e liquidi naturali: solo due integratori di carboidrati durante la maratona).
È l’ultimo chilometro, quasi non me ne rendo conto.
I quadricipiti sono un po’ doloranti, ma per il resto sto ottimamente.
Arrivo sorridendo e, quando abbraccio mia sorella che mi aspetta all’arrivo, mi commuovo.
11 ore, 46 minuti e 41 secondi. 334° su ottocento.
Ce l’ho fatta.
Grazie a tutti.
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